Di semplici apparenze
mi vesto,
a nuove mani le mie mani porgo, in attesa
di un prendersi che non sia un appropriarsi,
di un incoraggiarsi vicendevole che sia compreso
che qualcuno capisca
che non faccia male ma cresca con la certezza
che starsene con altri ancora conti.
Se si confondono le parole, se se ne rimangono
sole, prigioniere di un vocabolario,
inventariate,
se la lacca dei sentimentalismi non le copre,
se non entra nelle screpolature, arricchendole
di luce, un minimo di speranza,
seppure niente di questo avviene
si rimane lì ognuno da solo
ognuno con un canto suo, usignolo
del suo solo sentire.
Poveri non viaggiatori
calpestati sugli stessi sentieri, sui medesimi
suoli
che altri vanno cercando
accalcati, accaldati, araldi
di una canzone con solo qualche parola nota
e vago mormorio di accordo.
Sul bordo del tempo, appoggiando di lato il corpo
con astuta mossa
di sottomissione, accreditiamoci
come membri del nostro
tristo tempo.
Ordiniamo in fila le nostre tombe
giovani,
i corpi usati e buttati via,
il credere che il denaro tutto possa coprire,
offrire un sacrificio
al più forte,
distinguere fra morte e morte,
fra furto e ruberia, colloquiare
di democrazia
riservandola a pochi e ai loro amici,
precisare i tempi
che coprano i nostri errori,
piantare gli allori
con cui ci autoincoroneremo
nei tempi e nei modi che più ci piaceranno
Non contare il danno
che stiamo commettendo impedendo
agli altri di vedere.
Cresciamoci addosso come escrescenze
tumorali
dettando dogmi di nuove leggi d’etica.
Ma il tempo, per grazia del Signore, un freno
potrà porlo.
Il saggio tempo dell’andarsene, anche ai potenti
tocca.
Nella calcinata terra, dall’unghia
dei poveri arata,
un possibile seme nuovo, diverso,
da chi, non so chi, disperso nell’aria, una sottile
tenace pianta di ribellione e speranza,
seminato ha, fermamente incredibilmente vedo.
Sempre e costante.
La rivolta degli affamati inarrestabile credo.
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