Una attenzione
mi assottiglia come punta di freccia:
al fare male.
Al lasciarsi andare al passare
e ripassare
sopra qualcuno altro
addirittura senza cattiveria
senza volerlo fare
per concludere in bellezza un incontro.
Pronto il ghigno ti avvince
la battuta convince e piace
e l’altro tace stupefatto
che sia avvenuta, per gioco, un poco
della sua morte futura
apparecchiata, avvinghiata alle inutili parole.
Preda e strozzino di me stesso
i rancori che ho generati
come pomice strofinandomi addosso
m’hanno lisciato all’osso.
Chiamavo debolezze i rimorsi
finché non mi accorsi che era più il tempo
che ferivo
di quello che ricucivo.
E poi le debolezze dell’età mi fanno
oggetto io stesso
di sarcasmo e la vigile mente non porta
rapidamente neuroni alla lingua
che si impappina e si impiglia.
Nel mio stesso peccato dileggiato
moderatamente spodestato degli altri mi sto chiedendo.
Non comprendo se sia diventato più buono
o solo più lento, attento a non farmi male.
Nell’ospedale della vita
la lungodegenza anonima preferisco.
Inibisco la competizione, ipocritamente
mirando
al premio finale
che prescrive veste lustrale
bianca
e applausi di consenso.
E senza gusto e senso
vado
in un limbo di transizione senza emozione.
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