Già il titolo, a metà tra Leopardi e Prevert, ci lascia intuire su quale tempo si assesterà il racconto poetico. Parlo di tempo musicale, perché, quanto al tempo atmosferico, lo sappiamo già, siamo d’inverno – l’autore lo dichiara esplicitamente – e, perché non ci siano equivoci sul senso metaforico da dare a questa informazione meteorologica, precisa: “ mia ultima stagione “.
L’autore scopre le sue carte, non bluffa, non promette fantastiche avventure della mente, sconvolgenti roghi passionali, spericolati esperimenti verbali, ci dice: parlerò del freddo, desolato inverno della mia vita; per giunta, un inverno definitivo, che non aspetta resurrezioni primaverili.
Stabilisce un patto con i lettori: se vi va di accompagnarmi in questa esplorazione doverosamente aspra e senza consolazione, benvenuti, ma non dite che non vi avevo avvertito. Non che dalla vostra compagnia, sembra sottintendere, mi aspetti un qualche riscaldamento che mitighi la durezza climatica dell’ultima stagione, ma parlare a qualcuno, sapere che qualcuno leggerà la tua traccia è meglio che essere lasciati soli nel deserto.
Essendo fra quelli che amano la chiarezza e condividendo con l’autore una certa inclinazione alla melanconia, accetto la sfida e m’incammino per l’aspro e musicale sentiero. Insisto sul musicale perché il titolo apre evidentemente a un largo, un movimento musicale che, in parte, contraddice l’asprezza programmatica della premessa; il largo è metaforicamente un abbraccio: parte da una situazione individuale per alludere, per allargarsi, appunto alla condizione umana universale. E’ un tempo che esprime pietas, condivisione, compassione. Ed è un tempo che accompagna tradizionalmente la poesia, dai Lirici greci ai Romantici, agli Ermetici, fino agli Chansonnier ; Leopardi, come si diceva, della “ morta stagione “ o del “ Canto di un pastore errante dell’Asia “, ma anche Prevert delle “ Feuilles mortes “.
E allora scoprire che in questa frastagliata galassia poetica, che attraversa i tempi e le culture, che va dalla Grecia di Alcmane e Anacreonte al colle di Recanati di Leopardi, ai fiumi di Ungaretti, al rovente muro d’orto di Montale, ai boulevard lungo la Senna di Prevert, c’è anche il paesaggio verde e turrito di un ex bancario umbro che, per tutta la vita, non ha cessato di interrogarsi, di guardare la sua esistenza e quella degli altri, di patirla con i sensi e con il cuore, al ritmo di largo, fino alla sua ultima stagione, è di per sé motivo di curiosità e di contento.
Perché, se è vero che i grandi poeti sono pochi, è altrettanto vero che fare letteratura non significa solo esprimere pagine geniali, ma anche creare un tessuto comunicativo non volgare, una civiltà diffusa che si opponga alla barbarie dilagante della potenza mediatica, partecipare col proprio canto o con i propri sussurri alla creazione del rumore di fondo che prepara e accompagna l’emergere di potenti voci soliste.
E’ per tutti questi buoni motivi che accetto la durezza del cammino e apro le orecchie a questo Canto d’inverno.
E vengo subito premiata perché, a partire dai primi versi, vengo accolta da un “ sapore di fragola “, che addolcisce il furore del vento che “ raspa “, un sapore che evoca un altro cantore di inverni e di ultime stagioni, uno straordinario creatore di immagini nude e vibranti, immerse in larghi nordici, aperti ad accogliere storie e destini, nascite e morti: Ingmar Bergman.
E sentite, subito dopo, come accarezza, come lambisce le memorie dell’autore, ma anche le nostre memorie quel verso: “…E vanno, vanno i giorni e le stagioni…” E ancora, leopardianamente: “Altri sensi, altre attese mi fiorivano dentro. “
Del resto, quasi tutte le poesie di Alberto Conti si sviluppano su una traccia di una particolare musicalità, o meglio, cantabilità, che viene esperita a volte attraverso il ritmo ( “ Corri ora/ corri minuto…” o: “…Ma le soste che tu sola conosci ripetimi/ con canto rituale/ dammi ritmo nel mio lasciarmi andare “), a volte attraverso l’iterazione (“…E l’aria, ah l’aria che sapore! ), a volte con l’uno e con l’altra (“ Senza, senza paura/ un respiro e via l’altro.” ).
E che queste non siano semplici impressioni del lettore, ma siano invece scelte intenzionali, viene confermato dall’autore stesso quando, più avanti, scrive: “ Luogo non ho, non trovo ai concertabili e cantabili del cuore “, dove la negazione al canto denunciata viene di fatto contraddetta dalla cantabilità dei versi che la esprimono.
Un lirismo nutrito, come si è detto, di echi classici, di versi leopardiani e foscoliani, che devono avere accompagnato la formazione dell’autore ed essergli rimasti nell’orecchio interno come imprinting incancellabile e irrinunciabile. Rintracciabili ovunque, per esempio nella poesia che apre con: “ Lènta viène la séra, lènta e inesoràbile/ la nòtte insònne arriverà/ pièna di luci e d’ombre.” Avvio in cui si individua un’altra caratteristica delle poesie di Conti: quasi sempre le note morbide e solenni che aprono i componimenti, giocando fonicamente sul distendersi delle vocali, finiscono poi per incupirsi e stringersi in ritmi più serrati, attraverso parole più incisive, più consonantiche, più tranchant : “ Mai si ferma il pensiero della notte/ che pure verrà, eterna, a rubarti la carne e la speranza. “ E ancora, in una immagine bellissima, degna della grande poesia: “ Guardavo il vento muovere la valle ( o era questa a forzarlo/ dando spazi diversi alla sua corsa?) “, dove il susseguirsi e l’avvolgersi delle vocali u-a-è-o e il ripetersi della velare v evocano veramente il suono e il movimento del vento, mentre, nella seconda parte, gli scontri consonantici st, rz, rl, nd, sp, rs induriscono il verso, opponendo argini alla libertà della corsa del vento.
Ma, aldilà delle parole e del loro suono, colpisce il contenuto ossessivo degli scritti, con continui, assillanti riferimenti al tempo che consuma, che ruba, che appassisce, che trasforma ( “ Ed è esigente il tempo “ ), sia che assuma, il tempo, le sembianze della notte/morte, sia che si assimili al tempo atmosferico per diventare tempo-rale ( “ Il rumore del tempo inquieto che tuona/ spaventando sia me/ che il mio cane, su un piano di parità/ mi fa con lui una cosa, sola,/ ed il sentirsi l’uno all’altro addosso/ tiene lontano il buio e la paura “).
E, tornando all’immagine iniziale dell’inverno-ultima stagione, della solitudine desertica della vecchiaia, colpisce il bisogno di popolarlo, questo deserto, nel mentre lo si evoca, anzi di affollarlo di immagini, di ricordi, di parole, di mormorii, di sensazioni, di odori, di sapori, in risposta ad un horror vacui, che esprime la paura essenziale dell’uomo di essere lasciato solo nel momento della deriva, nel silenzio delle domande irrisolte, dalla compagna vicina, eppure irraggiungibile e da un Dio che non dà risposte udibili.
Perché c’è chi, alla fine del viaggio, il suo deserto o il suo inverno vuole contemplarlo scarno, nudo, spogliato di tutto e chi, invece, come il nostro autore, ha la necessità insopprimibile, compulsiva, di sovraccaricarlo di oggetti, suoni, parole per guardare questa discarica emozionale che si avvia all’eliminazione (“ Le medesime cose invento/ che feci e consumai/ e poi inventario tutte/ come se fosse un obbligo contarle,/ come se fosse comandato ricordarle “) e in un’altra poesia: ( “ Senza una meta, ad occhi chiusi indago/ vago senza speranza/ in una stanza zeppa e confusa/ di oggetti e suoni e voci alla rinfusa…”) sicché, come scrive più avanti: (“…Le parole pensate e che si dicono/ si ammonticchiano come foglie cangianti/ si impigliano ai cespugli,/ ogni pertugio/ ogni anfratto riempiendo ”).
L’autore, nel suo lungo canto invernale, si propone come protagonista di un perpetuo sogno o delirio, che rinasce continuamente dalle sue ceneri, frutto di un osservare accanito, ossessivo, dentro e fuori di sé, che si esplica scrutando il dentro come fosse un paesaggio e il fuori come fosse cuore, visceri, cervello (“…In un pentagramma dalle cinquemila righe/ con violinisti bicefali/ e tentacolari, coi suoni dirompenti/ di diecimila ottoni, con le passioni svanite, consumate appena…”) e ancora: “ A lato a me, sul foglio che si allunga/ la mano mia racconta,/ sfoglia la mente nel dipanato andare/ ogni nascosto dove,/ con certosino affanno raccolgo prove e fatti e non mi lagno/ che un premio, una mercede,/ al lavoro che compio non ci sia. “
Colpisce il desiderio inappagato di una vita che abbia significato, di un io che sia “ ragione per il mondo “, colpisce la pena per la contraddizione tra l’anelito generoso alla libertà e la meschinità dell’autocensura, del conformismo, cui ci condanna la nostra natura di esseri limitati: “ Prudentemente pretendiamo amore/ ma entro certi limiti, i confini disegnando/ ognuno della sua libertà. “
Colpisce, infine, l’aspirazione ad essere il contrario di quello che si è e si è stati, l’aspirazione alla chiarezza, all’armonia, alla semplicità: “ Vorrei pensieri semplici, che mi venissero/ subito alla bocca/ non spontanei, pensati, eppure/ semplici/ da capire e da dire,/ vocaboli comuni, come è comune vivere/ parole senza costume e senza maschera/…./ Un parlare che non faccia male, anche ferendo/ che possa dare conforto, non lo smarrito/ e smorto conversare/ ma un parlare./ Qualcosa che ancora non so fare e che nessuno/ mi ha insegnato mai. “
Aspirazione destinata a non trovare esito e, tuttavia, impossibile da abbandonare, quasi che il dovere, la tensione della ricerca assolvesse dall’inadeguatezza a raggiungere la meta: “ Ossessione impenitente resta/ come erba mala/ o come infame pianta succhiante, rampicante/ a toglier aria/ ma non me ne allontano./ Sulla trama dispersa e consumata/ rintelo ancora/ vanamente sperando di spiegarmi. “
In questa forbice, in questa distanza permanente tra voler essere ed essere si colloca la vocazione poetica di Alberto Conti. E’ in questo difficile spazio che ci conduce con i suoi versi a condividere il suo cantabile inverno: “ Ai pergolati, fra le foglie vizze,/ fruga la mano, ma non coglie frutto,/ ché stagione non è./ L’amore che non diedi/ contro di me sbandiera/ il suo rancore di non essere nato/ e m’avvizzisce. “
Anna Leonardi
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