Percorsi diversi, andirivieni strani
gli uni e gli altri
a cucchiaio sull’anima.
Le perdute luci, quei bagliori in fondo
laggiù, oltre la nebbia,
intasano, fanno gorgogliare la notte,
fanno rimescolare i gemiti, le richieste di aiuto
e le risposte.
Le membra difficilmente capiscono.
Se ne stanno composte
occluse nella loro indigenza
che nessuna sapienza può o potrà sciogliere
che nessun contatto sarà capace di cogliere
perché così è la vita, lunghezza finita
di una eternità che sai.
E se ti coglie il sonno, per quanto poco profondo sia,
lasciati andare.
La fantasia corre da sé, oltre le palpebre chiuse
oltre le ottuse ragioni,
oltre i paragoni che non ti poni,
oltre gli inutili doni del meditare.
E un vagare che fa la penna sui fogli
dove raccogli, immemore di te, le emozioni,
dove si incuneano e vibrano,
in termini ultimi, le visioni dei perché
e dei chi e dei quando e dei se,
sembra quell’arare piano che facevano i buoi
sui campi della tua infanzia.
Importandoti sempre meno delle cose
grandi
immedesimandoti nella finitezza
delle piccole cose,
dei granelli e della polvere, delle gocce di cera
che scendono giù piano
nel vano tentativo di restare, di prendere una forma,
di essere qualcuno o qualche cosa.
Nella ingloriosa constatazione delle mediocrità
della tua specialmente
lascia correre libero il pensiero
a quelle occasioni felici conquistate
a quelle dieci, sei, sette occasioni
che hai assaporate,
e non lamentarti più.
Alla fine del tuo percorso, divenuto inutile
e innocuo ogni rimorso,
rimani lì ad aspettare.
Che una ragione ci deve pur essere, ci sarà,
se tutto quello che dici tuo, se tu stesso
sei esistito, sei stato.
Oppure se l’hai solo pensato.
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